Ci allontaniamo per un poco dall'immagine oleografica di Pietroburgo città della letteratura russa. Il caso di Fedor Dostoevskij è a sé e trasmuta nella filosofia tanto da non potersi prestare al breve avviso che vuole darsi attraverso queste righe. Ci approssimiamo alla Pietroburgo letteraria per altra via, forse più descrittiva e architettonica pure se, alla fine, invulnerabilmente poetica. È la Pietroburgo di scrittori dell'Occidente, di italiani.
Un opera egregia che resta un libro non voluminoso, rapido da leggere e non carico del fardello di lunghe esplicazioni e nebbiose teorie introduce il lettore alla grande metropoli baltica.
È "il mito di Pietroburgo" del professor Ettore Lo Gatto, il più celebre degli storici italiani della letteratura e cultura russe.
L'atmosfera della città viene incontro dalle pagine viva perché essa è raccontata avendo come filo conduttore l'idea che alla metropoli volle imprimere il suo fondatore, lo zar Pietro; idea che, per l'ostinata visionaria volontà nel perseguirla da parte del geniale Romanoff, non poteva non divenire, come bene esemplifica il titolo dell'opera, un "mito". Addentrarsi oltre nell'anticipare qualche argomento di questo libro è impossibile per l'avviso qui proposto, ma basti rilevare che del "mito" viene compreso non solo l'effetto storico, ma anche la rilevanza poetica e che l'Autore unisce alla sua vastissima esperienza della cultura russa uno stile dello scrivere davvero magistrale per rapidità di immagini, profondità di intuizione e capacità di restituire in un grande quadro a mille colori tutto il panorama storico che dalla primitiva fortezza elevata sugli acquitrini di un estuario conduce alla metropoli, finestra sull'Europa, del mondo russo.
Nominamo, ancora senza inoltrarci nel suo contenuto, uno dei libri capitali del legittimismo regale europeo, "Les soirées de Saint-Petersbourg" del savoiardo De Maître. I dialoghi che costituiscono l'opera hanno luogo nella città baltica e si alternano con descrizioni semplicemente magnifiche della vita che ferve nelle prospettive adorne di palazzi o sulle acque dei canali, dove altre facciate neoclassiche si specchiano e dove barche navi vele si dondolano immerse nella luce dell'interminabile crepuscolo estivo. Le stampe settecentesche e le litografie dell' ottocento dalle quali tentiamo di immaginare l'incanto di questa città è come se si animassero alle descrizioni del De Maître e divenissero visioni cinematografiche, vediamo le figure in movimento, sentiamo la vita delle strade e dei canali palpitare, e tutto, figure, acque, palazzi, cupole è avvolto dalla patina d'oro della luce del sole notturno. Pare quasi uno strano miracolo geografico che questa patina d'oro non si perda con il declinare della bella stagione ma venga restituita condensata in materia da altre spiagge baltiche più meridionali sotto forma di ambra...
Accresce il mito pietroburghese il curioso tandem di concordanza e paradosso che il libro del Savoiardo, il massimo degli ideologi reazionari, si ambienti nella città voluta dall'assolutismo imperiale e culla del bolscevismo rivoluzionario. Ma, si può aggiungere, i fatti sono legati da un sottile filo disteso e visibile fin dal tempo ellenico: non ha ogni cosa e sempre il suo contrario entro di sé?
Lasciando al filosofo la contemplazione della tragica catena storica torniamo alla letteratura italiana con un libro del tutto geometricamente complementare alla metropoli imperiale perché descrittivo del panorama attorno la città nel senso lato del termine. "Nuovo Baltico" è infatti il libro che Alessandro Pavolini, fiorentino e figlio di Paolo Emilio, il traduttore nella nostra lingua del Mahabharata e del Kalevala, dedica al suo viaggio nei paesi baltici, Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia del 1934.
L'opera appare subito come un appunto giornalistico, ma appena se ne leggano con attenzione i primi capitoli ci si accorge che essa inquadra, e ciò avviene attraverso lo stile di uno scrittore di rango, vita e paesaggio naturale, storico, artistico dei piccoli stati baltici che dopo la rivoluzione d'ottobre e le alternate guerre fra armate bianche e bolsceviche si erano trovati ad essere indipendenti. Nel libro del fiorentino si legge delle capitali, Riga, Tallin, Kaunas, Helsinki, ma si sente come su tutto il paesaggio si allunghi l'ombra dei campanili della Metropoli ex-imperiale zarista ma presto, per i tre piccoli stati a meridione, imperiale e rivoluzionaria.
Si respira nelle pagine quell'atmosfera mista di gioia di vivere e perplessa attesa che precede lo scatenarsi delle tempeste. Che riguardi da più presso la città di Pietro vi è il passo davvero singolare nel quale l'Autore descrive, partito da Helsinki, l'arrivo al confine russo-finlandese. È usata l'immagine preveggente, per il tempo, 1934!, del confine tra due mondi, quello occidentale, figurato dalle architetture ultrarazionali quasi americane di Helsinki, e quello orientale al di là della sbarra con gli stemmi bolscevichi. L'immagine si dipana con le osservazioni assai attente che denotano la profondità dello sguardo dello scrittore fiorentino, incline ad una russofilìa latente. Ammirazione per Dostoevskij certo, ma anche per le grandi masse re-inquadrate e ri-ordinate, dopo la tempesta rivoluzionaria, dal bolscevismo. Alla frontiera russo-finlandese Pavolini ritrae l'americanismo della società finlandese e il suo estremo atlantismo di atmosfera ma lo contrappone solo in parte al mondo russo bolscevico. Qui, lo scrittore fascista, nutrito di cultura classica e pure di "exploit" futuristi, ricorda come la rivoluzione nata a Pietroburgo porti con sé modernità razionale, elettrificazione e industria non meno di quanto ne porti l'idea liberale all'Occidente modernista... Con, entro svolgere del tema, una gaia immagine finale: descrivendo il confine l'Autore aggiunge:
di qua i taxi lucidi di Helsinki, di là traballano le vecchie insopprimibili isvoscie.
Qui abbiamo con il libro di Pavolini un simpatico calco diretto dalla parola russa per la carrozza adibita al trasporto pubblico che ci rende più familiare l'atmosfera della metropoli baltica. Ho cercato su diversi vocabolari italiani "isvoscia" ma non lo ho trovato.
Viene quasi l'idea che l'Autore abbia mutuato la parola avendola ascoltata da uno o una dei non pochi russi della colonia fiorentina e con la facilità toscana di far proprie parole e nomi stranieri l'abbia trasposta nella sua pagina...
Nel 1928, la traduzione italiana che aveva guadagnato molti lettori al libro dell'atamano cosacco generale Krasnoff "Dall'aquila imperiale alla bandiera rossa" , movimentava descrizioni di vita a Pietroburgo con amori, colpi di scena alternati e prodromi rivoluzionari e l'azione, per essere tale, doveva per necessità cambiar di luogo servendosi delle isvoscie e dei loro vetturini, ma nella difficoltà di traduzione il termine rimaneva solo trascritto dal russo con i vari segni ed apostrofi. Ecco dunque che dalle rive della Neva arriva, nel 1934, con l'officina toscana della lingua una nuova e graziosa parola, non troppo futurista, che aumenta il nostro assetato vocabolario...
Nata alla fine del XVII secolo, la città del più caparbio dei Romanoff fiorisce nel tempo neoclassico, che si distende dalla grande Caterina ad Alessandro I e di questo stile rappresenta l'esempio forse al massimo grado di bellezza. A chi parte in viaggio per poterla vedere è necessaria la lettura dello straordinario libro "Gusto neoclassico" di Mario Praz, che un'ironia delle Muse ha voluto fosse storico della letteratura inglese. In questo volume tocchiamo con mano e compiutamente architetture che abbacinano i nostri occhi nel candore dei loro intonaci e nell'oro delle decorazioni. Dalle righe del consumato scrittore se ne abbraccia tutta la peculiarità, nuovissima nello sterminato impero. La Russia che alberga in ogni suo dove chiese affastellate di ornati dai mille colori è come se, ad un certo punto della sua storia, si fosse resa conto che pure la semplicità può conferire monumentalità e, per questo, lasci fiorire nei giardini teorie di colonne joniche, quali quelle predilette dall'architetto Starov, e si dia cura, nella nudità dello stile, di rifinire i particolari, tutti, anche quelli meno connessi all'edilizia viva, quali possono essere le immani cancellate nei parchi delle residenze patrizie. Negli interni di queste vi è la deliberata scelta di superfici vuote e i mobili in stile impero non si caricano di "appliques" come altrove ma restano lineari.
La parte descrittiva del libro di Mario Praz nulla ha del trattato di studi perché non trascura di ricordare che è essa stessa un appunto di viaggio e le osservazioni attente, i paralleli continui alle similarità artistiche negli altri angoli d'Europa del cultore erudito cedono soltanto e repentinamente alle impressioni del poeta che si cela avvolto nel mantello di un professore d'inglese:
qui sulle rive della Neva è come se si sollevasse un velo e si contemplasse per un momento il segreto dell'armonia delle cose e si rimane sorpresi che la visione duri e che un'avara dispensatrice non la sottragga un attimo dopo agli occhi abbagliati.