Era nell’abitazione di Alexander Rod?enko e campeggiava su di un mobile, plausibilmente fino a quando il geniale fotografo disegnatore pittore russo non rientra a Mosca dopo essere sfollato dalla capitale per la guerra.
La Torre-Gru, come la si può ora chiamare, stante la sua siluetta che simula più o meno le forme dell’attrezzo elevatore dei grandi cantieri, era stata presentata molti anni prima, a fine anni venti, ad una mostra con le altre 24 (o forse più) “costruzioni spaziali” del Russo che avviavano con esempi tangibili, e nelle tre dimensioni, la bella stagione del “costruttivismo” sovietico.
Le forme nudamente geometriche a diedri ortogonali tracciati idealmente dalle aste diritte, che erano gli elementi delle costruzioni spaziali, di Rodchenko davvero avevano dissolto ogni sentimentalismo ed ogni decadenza estetica nel loro apparire “in esteso”.
La Torre-Gru era, con una costruzione affine ma assai più arzigogolata, in cartoncino candido, ragion per cui l’effetto che essa esercitava ed esercita ancora oggi nelle fotografie in bianco e nero era eccezionale per l’armonica bellezza.
Ma, dopo un certo tempo dal ritorno del Russo nell’appartamento all’ottavo piano al centro di Mosca, nulla più se ne sa e sembra sia finita anch’essa nella stufa colle altre costruzioni spaziali in legno, stante un inverno di guerra non più minaccioso per eventuali attacchi aerei ma percosso da un freddo polare che arriva nella metropoli, in quel lontano primo trimestre del 1943, a scendere fino a punte di meno venti gradi, cui la povera stufa si oppone elevando all’interno della casa-atelier di Rodchenko la temperatura ai soli dodici gradi. Quel tanto che basta all’Autore per continuare ancora a progettare grafiche o a scrivere lettere, dopo aver provveduto alle faccende dell’ordinaria dura sopravvivenza del civile in guerra, involto nel cappotto e con gli stivali pure in casa!
Questa è, per sommi capi, la storia della Torre-Gru, considerate le difficoltà di avere quelle informazioni più ravvicinate che i libri purtroppo trascurano di dare.
Ma a chi vuole sfogliare questo libro la storia della slanciata costruzione di Rodchenko può interessare relativamente se è possibile rivederla ricostruita onde ritrovare in proprio quell’effetto di armonica bellezza che colpisce chiunque la veda su di una delle tante opere dedicate al grande fotografo russo.
Ed è proprio il fine di questo libro: quello di dare finalmente al lettore la possibilità di elevare la Torre-Gru in forme e proporzioni che devono risultare molto simili all’originale che è a noi visibile solo attraverso o sfocate foto d’epoca o foto moderne di esemplari ricostruiti da appassionati russi che però nulla ancora ci lasciano intravedere dei particolari precisi della costruzione.
Questo per il fatto che gli appassionati di cui si dice si sono probabilmente attardati, dopo la ricostruzione, ad ammirare e fotografare la Torre-Gru cercando di ricreare quell’aura di nudità, disinfettata di sentimento eppure viva e rampante verso un’utopia, che doveva essere stata percepita nei ruggenti anni del costruttivismo, e con questo si sono dimenticati di dare qualche misura o disegno che permettesse, anche lontano da Mosca, di effettuare una ulteriore ricostruzione della curiosa e bella architettura.
Dico architettura a ragion veduta perché dalle poche foto che restano di tutte le costruzioni spaziali della famosa mostra di Rod?enko appare evidente come il filo conduttore dell’invenzione artistica del Russo sia quello di una utopia architettonica che, forse, prendeva nella sua mente delle proporzioni monumentali a sigillo augurale di un tempo nuovo.
Un episodio del documentario di I. Lajner "Costruttivisti. Esperimenti per il futuro. Rodchenko" (Russia, 2012)
Ma come quasi sempre avviene, ogni utopia si lancia al suo futuro entro la storia così come un’onda del mare si getta impavida sulle pietre appuntite di un’immane isola di roccia che si leva dalla distesa delle acque e finisce così per frantumarsi sulla dura pietra in mille e mille scaglie di schiuma. E questo fatale esito non è stato, né poteva essere altrimenti, risparmiato all’idea architettonica del grande fotografo.
D’altra parte l’utopia, soprattutto quella dell’arte e della bellezza, è tragica, perché, come Atena da Zeus, nasce vera e perfetta dall’idea platonica, ma, diversamente dalla dea dagli occhi glauci, si trova poi costretta a subire le angherie del mondo “reale”, che se è patetico all’occhio di un filosofo con la misura dell’eterno per l’arroganza di immaginarsi “razionale” in virtù della sola percezione del proprio labile esistere, pure spesso è, nel manifestarsi, l’ingranaggio di una macchina gigantesca e cieca che tutto travolge e stritola.
Dunque il tramonto rapido dell’utopia costruttivista e il suo non essere divenuta idea architettonica è solo relativo se visto con l’occhio di un lungo tempo postumo. Il tempo agisce sulle dimensioni fisiche di un oggetto o di una architettura come la nave che allontanandosi fa apparire ciò che nel porto era gigantesco e incombente sempre più minuscolo fino a farlo scomparire alla vista, e però ne accresce nel ricordo la parte di vera bellezza che esso poteva avere.
I templi dorici dell’Ellade, splendenti nelle forme e severamente monumentali, quasi spariscono nelle dimensioni a fronte dei disanimati e banali grattacieli di oggi, ma nulla è tolto del loro essere fonte perenne della perfezione architettonica e segno della più serena bellezza ove traluce anche come nobile rovina la volontà assoluta di imporsi al tempo.
Così il vedere la Torre-Gru nelle dimensioni di modello (quale, in fondo, la vide il pubblico di quella lontana mostra a Mosca) nulla toglie al piccolo capolavoro del costruttivismo, della sua forza augurale e della felice riuscita composizione di un adamantino ordine quasi ellenico con l’ardore dinamico di un’avanguardia che si era gettata generosa e impavida, al pari del futurismo italiano, nel vortice della storia.
È stato scritto da Charles Baudelaire che “la costruzione, l’armatura …è la garanzia più importante della vita misteriosa delle opere dello spirito”.
Alludeva, il Francese, ad un’opera poetica che voglia abbracciare un vasto panorama e sopravvivere nel tempo, ma la sua massima è estensibile alle altre arti belle: i templi ellenici e romani all’esterno sono, in fondo, ora null’altro che armature di colonne spesso in rovina ma chi può negare che, nei loro pressi, se ne senta ancora la vita misteriosa?
La Torre-Gru era un’armatura ben più flebile e sottile eppure sopravvive non fosse che solo in immagine e da questo libro essa può rinascere, come modello, anche all’ombra delle Alpi…
Curzio Vivarelli